Dopo due anni, 3 mesi e 29 giorni mi sono presa un pomeriggio libero.
Un pomeriggio per me, senza Pupa, senza Orco, senza nessuno.
Sono andata a Panificare. Sì, insomma, ad un corso per imparare a fare il pane.
Dato che io potrei perdermi anche nel cortile di casa mia, Santo nonno mi ha accompagnato nel luogo fissato per il corso.
Un luogo che mi dicono essere compreso nel raccordo anulare. In un quartiere molto in voga a Roma. Peccato che dopo aver avuto un figlio, si faccia fatica a riconoscere anche il giornalaio in fondo alla strada. Sicché, ovviamente, non ci avevo mai messo piede in vita mia. Da sola non ci sarei mai arrivata.
A dire il vero, anche col Santo nonno, ho avuto delle difficoltà (che volete, ero io ad interpretare la mappa scaricata da Internet).
In un modo o nell'altro, comunque, sono approdata alla sede del corso.
In un bellissimo giardino, mi attendevano 15 donne-panificatrici in erba e una maestra.
Ci presentiamo e mi chiedono quale sia il mio rapporto con il pane: "principalmente me lo mangio" dico.
Le signore sorridono, ma non restano impressionate. In effetti, tutti mangiamo il pane. Io non sto a puntualizzare, chiarendo che quando dico "principalmente", intendo dire che ne mangio circa due chili al giorno, che il pane a casa mia dura meno di due ore, che appena uscito dal forno mi ci fiondo e riesco a ingurgitarne un chilo anche se incandescente, che consumo circa cinque chili di farina alla settimana, che mi nutrirei esclusivamente di quello, possibilmente farcito con una bella tavoletta di cioccolata.
Invece taccio e ascolto le altre.
Sono tutte panificatri esperte. Qualcuna ha portato dei pani da assaggiare. Naturalmente, non me ne lascio sfuggire nessuno.
Quando io sono ormai abbottata di pane, e tutte hanno ormai colto il senso della mia frase di presentazione, ci alziamo per andare in laboratorio.
La maestra comincia a spiegarci le tecniche della panificazione.
E io capisco perchè siamo solo donne.
Il pane è una metafora della maternità.
Tanto per cominciare, il lievito naturale si chiama lievito MADRE.
Ed è una cosa viva. Un misto di farina ed acqua in cui brulicano vitalissimi fermenti.
Bisogna averne cura, quasi si trattasse di un pesce rosso o di un altro piccolo animale. Un tamagoci, suggerisce sagacemente una delle mie compagne di pane.
Mai abbandonarlo, mai dimenticarlo, mai lasciarlo solo troppo tempo.
Mentre la maestra ci spiega come prenderci cura del lievito mamma, io già mi vedo partire per le vacanze estive con la macchina carica: pupa, gatta e vecchia nonna dietro, io alla guida, la nuova nonna davanti e fra di noi il lievito mamma, comodamente accoccolato in un termos.
La pupa strillerà come un' aquila da Roma a Civitavecchia, la vecchia nonna parlerà di dentiere tra Civitavecchia e Grosseto, la nuova nonna criticherà come guido dall'inizio alla fine del viaggio, e io riuscirò a vomitare sulle strade dell' Elba nonostante sia al volante.
Come farà il lievito a sopravvivere ad un tale trasbordo?
La maestra prosegue nell'esposizione, ma io ho già deciso che prima dell'estate darò il mio lievito in adozione.
"Per fare il pane bisogna rimestare il lievito naturale con acqua e farina e creare il lievitino". Spiega la nostra educatrice.
In pratica, il lievitino è il figlio del lievito madre. Traduco io.
Il lievitino, poi, diventerà pane.
Per diventare pagnotta, cito le parole della maestra "dovete insegnarli ad essere autonomo, riuscire a farlo staccare da voi e fargli percorrere la sua strada in autonomia".
In pratica, tocca tagliare il cordone ombelicare.
Insomma, non solo dobbiamo tagliarlo con le nostre madri e poi obbligare i nostri figli a tagliarlo con noi e cercare dei mariti che non se ne costruiscano uno tutto per loro, ma dobbiamo troncarlo anche al pane.
Con questo, però, ci dovremmo riuscire con tre bottarelle di mano e un pizzico di farina. Con gli altri, non basterà una vita.
La maestra spiega la tecnica: "per prima cosa dovete pulirvi le mani con la farina, se non sono perfettamente pulite non potete lavorare. Poi pulite tutta la ciotola dall'impasto appiccicato, usando le mani come spatole e quindi rivoltate il pane sulla schiena e lavoratelo sulla pancia. Il pane non si deve mai attaccare".
Ok, penso. é come cambiare un pannolino.
Raccatto tutto, sdraio il pupo sul fasciatoio, lo massaggio e lo pulisco un po' e poi lo inforno.
Mi guardo intorno e tutte procedono speditamente. Io sto ancora tentando di pulirmi le mani.
Ma come capperi si puliscono le mani con la farina?
Le mie sono sempre più sporche.
Il mio intruglio si appiccica sulle maniche, sulla camicia, sui capelli.
Quando sono ormai una statua di gesso, arriva la maestra.
Tento disperatamente di fingere il ribaltamento del panuozzo.
Sorrido. "stai facendo il movimento al contrario" mi secca. Cazzo, lo sapevo che sbagliavo qualcosa.
Ricomincio, tentando il movimento da lei suggerito. A tutte riesce benissimo. Per loro è naturale, per me è del tutto innaturale.
Mi impiccio un po' dei pani delle altre e vengo colta da un attacco di depressione fulminante. Sono tutti lisci e bianchi e ben rivoltati sulla schiena. Il mio è ancora adagiato sulla pancia, pieno di bitorzoli, appiccicato ovunque, rivoltante. Le mie mani sono ricoperte di una colla universale che mi cola sui vestiti.
Comincio ad avere dei miraggi del mio bel frullatore. Ma questo pane qui non si puà frullare, è una cosa viva. Frullarlo sarebbe come mettere la pupa nella lavatrice (ehh... e non si può, giusto?).
Provo ad insistere e comincio a parlarci : "senti pupo, è stato bello, ma ora devi diventare autonomo, ti devi staccare e andare nel forno".
Mi sembra di sentire un'eco di risa. é lui o le mie compagne?
Sta di fatto che quello di staccarsi non ne ha alcuna voglia. Non gli passa nemmeno per l'anticamera del fermento di abbandonare le mie mani e diventare una bella pagnotta. é così divertente fare il blob sui miei vestiti, perchè mai dovrebbe finire nel forno?
Alla fine, ci rinuncio e lo consegno alla maestra. Lei in quattro rapidi gesti lo rende presentabile e lo mette in incubatrice a lievitare.
Un thé e alcune chiacchere dopo, i pani sono cotti. Ce li dividiamo.
La maestra ci consegna anche il prezioso lievito mamma, pronuncia una formula meravigliosa dalla quale arguisco che il lievito che mi viene consegnato ha trecento anni e viene dalla Toscana.
Lo guardo e sento l'ansia che monta in me.
Nella mia vita, sono riuscita a far morire di tutto, dalle piante grasse al televisore.
Ed è una vita che sogno di far fuori mia madre.
Al lievito madre non do più di tre giorni.
Un finale travolgente e thrilling (per la mamma)per un racconto sublime!
RispondiEliminaSei bravissima Francesca! Un unico consiglio non frequentare corsi nei quali parlano del pane come di un figlio e paragonano il lievito al tamagochi(è gente malata!).
Il grano dal quale noi panifichiamo esiste da migliaia di anni; cosa vuoi che siano 300 anni per un lievito (mamma).
Infatti è giovane!
RispondiEliminapensa un po'!
ma no è stato bellissimo! Spero ne facciano altri, su nuovi argomenti!
La maestra era una poetessa, usava molte metafore. e io l'ho apprezzato tantissimo!
però la rivisitazione del tema in termini bambineschi è farina del mio sacco. ma sai, in qualità di neo mamma, io ormai ho una visione bambinocentrica dell'universo...
cmq, appena riesco a fare un pane e prima di ammazzare il lievito madre, vi invito ad un assaggio! :)
Ti ringrazio per l'invito, e lo accetto per conto di entrambi.
RispondiEliminaOltre che poetessa era un po' folle, a mio modo di pensare. Però se "ti ha piaciato" va bene anche per me. :D
Potrei firmare: Pilato...