Il primo trimestre, potevo quasi dimenticare di portare l’Abusivo nella pancia. È vero, un paio di volte ho vomitato, lo ammetto. Ma è stato subito dopo un trasbordo aereo per una sede sperduta del Cliente. E io, si sa, soffro di mal d’auto. E di mal d’aria. E di mal di mare. Insomma, vomito anche dopo aver preso l’ascensore.
Senza contare che la visione del cliente provoca sempre fitte all’addome e forti giramenti di testa.
Il secondo trimestre, ho scalato le montagne. E ancora entravo nei miei vestiti. Riuscivo ad indossare persino i jeans. Certo, la lampo si apriva da sola, accompagnata da un rumore simile a quello che può produrre un calabrone ubriaco (e cioè, zzzzz – pausa – zzz-zz-zzzz – pausa, zzzzz – pausa, stock). E certo, qualcuno se ne sarà pure accorto. Però, che soddisfazione mettere jeans non pre-maman in gravidanza!
L’ultimo trimestre è il più duro. Eppure, questa volta, sono riuscita ad evitare le gambe modello Sora Lella e solo nelle ultime settimane ho preso ad assomigliare sempre più – nel fisico, nella postura e nei movimenti – alla versione del Pinguino di Danny De Vito.
Insomma, devo ammetterlo, il Clandestino ha fatto il bravo feto, confermando purtroppo le voci che corrono sulle gravidanze: pessime quelle delle femmine, fantastiche quelle dei maschi.
Ma era ovvio che l’Alien presentasse il conto, prima o poi.
E Infatti.
Ormai prossima all’esplosione, Il 4 gennaio mi reco in clinica per essere monitorata. Benché siano giorni – e notti – che sopporto in silenzio dolorosissime contrazioni, entro convinta che mi rimandino a casa, insultando il collo del mio utero che non è incline ad accorciarsi e aprirsi al mondo prima che siano decorse le 40 settimane di gestazione.
Ma l’ostetrica non vuole mollarmi più, manco fosse colta da improvviso e irresistibile trasporto nei miei confronti.
Non si fa così, però. Non sono pronta. Ho ancora la valigia per la clinica a metà (e a casa). Ho assicurato alla Pupa che sarei tornata presto e fra due giorni è la befana e io non ho ancora la calza.
Così, fuggo.
Non paga, prima di rincasare e decidermi una buona volta a mettermi tranquilla, faccio visita al supermercato, tanto per dotare la famiglia di beni di prima necessità che possano assicurare loro la sopravvivenza in mia assenza: kinder, caramelle e nutella.
Ovviamente, durante il pellegrinaggio fra i kinder, le contrazioni si fanno più frequenti. A casa, non mi mollano proprio più. Alla fine, rinuncio a malincuore alla pizza ai 4 formaggi e ritorno in clinica.
Il tempo in certi momenti non può essere misurato. Io sono convinta di aver passato ore fra atroci tormenti; in realtà, è stato tutto molto veloce.
Alle nove e qualcosa, vengo condotta in sala travaglio e rispondo alle domande dell’infermiera. Ogni tanto, devo interrompere le chiacchere per una imprecazione mentale: è una contrazione.
Alle nove e trenta, continuo a rispondere alle domande, ma l’infermiera deva fare attenzione a non scrivere proprio tutto quello che dico: le imprecazioni vengono pronunciate a voce alta e tonante.
Alle dieci, ho rinunciato a vivere dignitosamente il dolore, a mantenere il pudore e quell’allure di donnaconlepallechenoncedemai che mi porto dietro, e urlo come una pazza. Io. E cioè quella che ha sempre sentenziato, innanzi alle partorienti ulranti: “che vergogna! Un po’ di dignità, non c’è alcun bisogno di urlare!”
Alle dieci e dieci, riacquisto la lucidità per un attimo e riesco ad inveire contro l’orco: “Ti devono venire i calcoli renali grossi come patate, bastardo!”. Poi, torno ad essere assolutamente indegna.
Alle dieci e venti, imploro l’epidurale e caccio definitivamente via dalla clinica l’Orco con parole più o meno simili a queste “VIAAA mandatelo via, è tutta colpa sua!!”
Alle dieci e trenta, alle parole “è di quattro centimetri” scambiate fra ostetrica e ginecologo, scatto su come una posseduta dal demonio, sbottando con voce non mia: “ma come 4 centimetri, cazzo??? Come è possibile solo 4???”.
Alle undici, durante un breve intervallo fra le grida, chiedo “nascerà comunque il 5, vero dottore? Ho detto a tutti che nasceva il 5”. Ricevute le dovute rassicurazioni, torno ad urlare cose irripetibili.
Alle undici e quindici, è ormai chiaro che l’epidurale non ha funzionato. Credo l’abbiano capito anche gli inquilini del numero 18, laggiù in fondo alla strada.
Alle undici e trenta, un ultimo disperato tentativo di anestetizzarmi in qualche modo. Secondo me, è fallito.
Alle undici e cinquantacinque, l’Alien esce. Cinque minuti prima della data da me pronosticata e annunciata al mondo come l’ultima rivelazione di Fatima. Che carino!
Subito, me lo posano sulla pancia (lavarlo prima sarebbe veramente molto sbagliato?).
Lo guardo e noto con preoccupazione che è tale e quale a Yoda, il maestro jedi di guerre stellari, con le orecchie a tortellino ripiegate su loro stesse e la faccia rugosa di un vecchietto.
Le infermiere si avvicinano e mi chiedono: “come si chiama questo giovanotto, signora?”
Io le guardo e dico “Ultimo”.
Il medico mi lancia uno sguardo d’intesa e mi fa “diciamo pure Definitivo!”.